Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXII – 05 aprile 2025.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Epilessia: lo striato nuovo target nelle assenze e nell’epilessia del lobo temporale. Si pensa in genere allo striato per il suo ruolo nel movimento e nella ricompensa, ma ora è stato scoperto un ruolo di potente regolatore di possibili attività critiche. Hyder e colleghi hanno accertato che la neuromodulazione dello striato impatta sia crisi tipo “assenze”, sia crisi del lobo temporale. L’attivazione optogenetica dei neuroni dello striato sopprime entrambi i tipi di epilessia, il silenziamento dello striato le peggiora entrambe. I risultati di questo studio suggeriscono di eleggere lo striato dorsale a nuovo target per la DBS (deep brain stimulation) nella terapia dell’epilessia. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2419178122, 2025].

 

Coscienza: i nuclei intralaminari e mediali del talamo controllano la percezione cosciente. La consapevolezza della percezione visiva è stato uno degli ambiti più indagati per stabilire le basi neurali della coscienza, dagli studi di Francis Crick e Christof Koch che individuarono nella frequenza gamma corticale (40 hz) il primo correlato cosciente. La maggior parte degli studi, pur riconoscendo nella rete cortico-sottocorticale l’importanza del talamo, sono stati centrati sulla corteccia cerebrale e, quindi, l’esatto ruolo dei nuclei talamici non è stato definito. Ora, un nuovo studio di Zepeng Fang e colleghi, adottando registrazioni intracraniche simultanee del talamo e della corteccia prefrontale, ha chiarito che la direzione del flusso di informazione dei correlati neurali della coscienza va dai nuclei talamici intralaminari e mediali alla corteccia prefrontale, stabilendo che questi nuclei sono responsabili del controllo della percezione cosciente. [Cfr Science 388 (6742): 3675, 4 April, 2025].

 

Connettoma funzionale: variazioni dall’età post-mestruale agli 80 anni in 33.250 soggetti. Dati di risonanza magnetica strutturale e funzionale sul cervello di 33.250 volontari, di età compresa tra 32 settimane di età post-mestruale e gli 80 anni, hanno consentito a Sun e colleghi di definire un atlante della connettomica cerebrale nelle sue variazioni nel corso della vita. Questo dettagliato ed esaustivo lavoro mette a disposizione di ricercatori e psichiatri dei “quadri normali”, propri delle varie fasce di età, ai quali rapportare le variazioni individuali, che in tal modo possono essere quantificate in relazione allo sviluppo, all’invecchiamento e alla patologia psichiatrica. [Sun L. et al. Nature – AOP doi: 10.1038/s41593-025-01907-4, 2025].

 

Per ascoltare un suono o una voce in un frastuono facciamo uno sforzo: cosa avviene nel cervello? La sensibilità agli stimoli acustici rimane la stessa, quando ci sforziamo per riconoscere suoni o voci mascherate, disturbate o coperte da un elevato rumore di fondo. Come fa il cervello a garantire questa prestazione, che diventa cruciale quando c’è un difetto o una perdita di udito? Dan Sanes, Kelsey L. Anbuhl e colleghi hanno identificato un circuito top-down dalla corteccia del giro del cingolo alla corteccia uditiva che consente di superare gli ostacoli uditivi supportando lo sforzo di percezione. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2412453122, April 1, 2025].

 

Una proteina dei tardigradi può proteggerci dagli effetti nocivi delle radiazioni. Animali a stento visibili, lunghi meno di un millimetro, i tardigradi, noti negli USA come “water bears”, producono una proteina, Dsup, che si lega al DNA rendendoli resistenti alle radiazioni. Iniettata nei topi, Dsup ha ridotto significativamente il danno da radiazioni. James Byrne, esperto di radioncologia della Iowa University, che in precedenza aveva studiato al MIT la radioprotezione con Giovanni Traverso, con i suoi colleghi ha analizzato la capacità dei tardigradi di sopportare una dose di radiazioni 1000 volte superiore alla dose letale per l’uomo ed è giunto a identificare questa proteina. I ricercatori stanno ora cercando una strategia per l’impiego terapeutico nell’uomo, per la protezione dagli effetti collaterali spesso gravi della terapia radiante dei tumori cerebrali. [Kirtane A. R. et al. Nature Biomedical Engineering – AOP doi: 10.1038/s41551-025-01360-5, 2025].

 

Registrato per la prima volta un rumore-segnale prodotto da uno squalo. È un piccolissimo squalo-crostaceo (Mustelus leucticulates) monitorato in acqua neozelandesi mentre produceva un “clicking” con i suoi denti appiattiti, il protagonista di una registrazione realizzata da Carolin Nieder della Woods Hole Oceanographic Institution del Massachusetts e dai suoi colleghi, considerata: “Il primo caso documentato di produzione deliberata di suono da parte di uno squalo”. Sembra che il particolare tipo di rumore-segnale sia stato prodotto per effetto di stress, ma naturalmente si dovrà continuare l’ascolto e l’analisi per giungere a conclusioni interpretative. [Fonte: Royal Society Open Science, March 26, 2025].

 

Non è un mistero la lingua cambogiana o khmer scritta in verticale in Vietnam. La scrittura khmer o cambogiana deriva da una scrittura indiana meridionale, e si presenta nella forma rotonda (mul), dei testi sacri e poetici, e nella forma corsiva con caratteri inclinati (jrieng) nell’uso ordinario. È una scrittura adottata da varie etnie in Thailandia e Laos. Anche i Thai neri e i Thai bianchi l’hanno adottata in Vietnam ma – ci si chiede – perché una scrittura indiana è scritta in verticale? Il motivo è semplice: la lingua ufficiale dell’amministrazione vietnamita è il cinese, e cinesi di madrelingua sono stati i primi a usare la scrittura cambogiana, rendendola verticale come il cinese per consolidata abitudine a scrivere in quel modo. [BM&L-Italia, aprile 2025].

 

Dalla fascinazione dell’ignoto all’uccisione del mostro a tre teste: il senso latente nel cuore di un mito. La fascinazione lantanide dell’altrove fantastico, che rivela alla vista quel sorprendente inimmaginabile ed estasiante che è il meraviglioso, può in sé celare l’insidia di ritenersi nell’edenico, ma d’improvviso imbattersi nello sconcertante inconcepibile del mostruoso. È questa la tematica in filigrana psico-antropologica del filo essenziale che si può estrarre dalla costruzione mitologica polistratificata dei racconti in cui l’eroe, che rappresenta l’Io con cui identificarsi, si imbatte nel potere di un mostro a più teste proveniente da una dimensione inusitata. Il potere conosciuto si riconduce a una singola fonte di legittimazione, ragione e articolazione di senso: quando si assiste a una duplicità o molteplicità di fonti indipendenti e in possibile contrasto fra loro, si determina uno stato di incomprensibilità, che va gestita, in un modo chiaramente indicato nel mito. Ma consideriamo brevemente la trama mitologica analizzata nel nostro seminario.

Nella sua decima fatica, Ercole ruba la mandria di Gerione e la conduce a Micene, polis spartana celebrata dall’Ateniese Tucidide. Che la mandria di Gerione non sia costituita da buoi, né tantomeno si tratti di armenti come qualche volta si legge, ma sia una metafora, è facile da desumere, anche solo provando a immaginare nella realtà il senso e l’impegno di un simile trasporto animale dall’isola di Eritea (Erytheia o Erizia) sita al di là delle colonne d’Ercole, attraversando tutto il Mediterraneo, fino in Grecia. Cosa ha rubato Ercole? Ha politicamente rubato l’esercito, ossia ha indotto il popolo armato, che costituiva la forza di Gerione, a trasferirsi in una città militare dove avrebbe trovato ricchezza, opulenza e vita migliore.

Chi era Gerione? Un gigantesco mostro a tre teste, riprodotto talvolta con tre corpi, per rimarcare l’indipendenza esecutiva delle tre menti, che viveva a Eritea, la già menzionata isola vicina alla costa della Spagna atlantica, oltre lo Stretto di Gibilterra, nella regione di Gadeira; il suo nome, che richiama il termine greco per il colore rosso, non è riferito – come si legge spesso – a una presunta rubescenza dell’isola o dei suoi tramonti, ma al fatto che i suoi abitanti dicevano di provenire dal mare Éritro, espressione che designava, come spiegano il geografo Eforo di Cuma e la regina Filistide di Siracusa, i territori dell’Oceano Indiano, inclusi Mar Rosso e Golfo Persico, ossia l’altrove ignoto e favoloso per eccellenza in quell’epoca. Chi fa la guardia al mostro a tre teste Gerione? Ortro, un mostruoso cane a due teste fratello di Cerbero, della Chimera e dell’Idra di Lerna.

Le versioni di maggiore tradizione del mito riportano che Ercole, dopo aver ucciso Ortro, affronta e uccide un altro mostro, ossia il centauro Eurizione, metà uomo e metà cavallo che, nella trama figurata, è detto “mandriano”, in altri termini colui che presiede, sorveglia e controlla il seguito militarizzato del popolo “rapito” dalla prospettiva di una nuova vita. Ercole se ne va, ma il tricefalo Gerione lo insegue e lo raggiunge presso il fiume Antemo, dove l’eroe compie la decima fatica uccidendolo.

L’insegnamento rozzo, crudo e un po’ arcaico nascosto nel mito segue l’istinto brutale di distruggere ciò che non si comprende: elimina i mostri a più teste!

Prendendo le mosse da questa traccia, la discussione al nostro seminario ha sviluppato numerose tesi differenti. [BM&L-Italia, aprile 2025].

 

La vera storia dell’arista e del vin santo: circolano ancora racconti smentiti dai documenti. Proseguiamo nei nostri appunti di storia della cucina per sensibilizzare circa la necessità di ritornare alla preparazione casalinga dei cibi, evitando i prodotti dell’industria alimentare (v. in Note e Notizie 15-02-25 Notule: I nuovi studi su microbioma intestinale e asse cervello-intestino evidenziano l’importanza dei costumi alimentari; Note e Notizie 22-02-25 Notule: Appunti e curiosità su abitudini alimentari e cucina presso i Romani antichi; Note e Notizie 01-03-25 Notule: Da Roma a Firenze: appunti di cucina medievale italiana prima del primo libro di cucina; Note e Notizie 08-03-25 Notule: Dai costumi alimentari medievali alla nascita del lessico della cucina italiana; Note e Notizie 15-03-25 Le straordinarie ricette del Modo di cucinare et fare buone vivande rivelano i gusti dell’epoca; Note e Notizie 22-03-25 I destinatari dei ricettari del Trecento e la breve storia di una brigata di giovani gaudenti; Note e Notizie 29-03-25 Da cosa mangiava il Collegio dei Priori nel 1344 al secondo libro di cucina del Trecento).

La leggenda più seguita vuole che le due denominazioni “arista” e “vin santo” siano nate durante il Concilio Ecumenico della Chiesa Romana indetto a Ferrara nel 1438 e traferito a Firenze nel 1439 come Concilio Ecumenico per l’unione della Chiesa Greca con la Chiesa Latina, ma vi sono documenti di oltre un secolo prima, in cui entrambe le espressioni sono riportate come nomi d’uso comune. Allora abbiamo deciso di fare una piccola indagine bibliografica ad hoc per cercare di chiarire la questione. Cominciamo dall’arista.

La parola, che si pronuncia àrista, alla greca, indica un pezzo di lombata di maiale con l’osso: filetto e controfiletto. Pellegrino Artusi, autore del primo libro di ricette completo di tutte le regioni italiane (1891), notò che il termine era in uso a quel tempo solo in Toscana e cercò di comprenderne la ragione, a partire dall’indubbia origine greca del lemma. Trovò un aneddoto sul Concilio di Firenze del 1439 e lo riportò quale spiegazione. Noi non riprendiamo l’aneddoto dall’Artusi, ma dal documento originale – trovato da Foresto Niccolai, archivista della Misericordia di Firenze – che riguarda un particolare episodio accaduto durante gli anni in cui il Concilio andò avanti in Firenze e i Greci ebbero modo di apprezzare la cucina fiorentina: “… alcuni soldati del seguito di Giovanni Paleologo, Imperatore d’Oriente, venuto da Costantinopoli per assistere alla grande assemblea, si recarono in una taverna di Oltrarno dove fu loro dato da mangiare del maiale arrosto con aglio e ramerino. Quella gente orientale non abituata a tale specie di vitto, perché come gli Ebrei riteneva la carne suina nociva e immangiabile, proruppe nell’esclamazione: “Ta arista”, che in greco vuol dire: le cose migliori; e così sarebbe venuto nell’uso volgare fiorentino tale parola che a Firenze si usa anche oggi”[1].

Non si può escludere che questo episodio sia autentico, ma non coincide certo con la data di nascita della parola “arista” nel significato di lombata di maiale perché, come abbiamo detto, era già in uso nel 1300. Abbiamo trovato, infatti, che la più antica menzione documentale del vocabolo per indicare il taglio di carne del maiale e la pietanza derivata si rinviene nel Quaresimale fiorentino di Giordano da Pisa del 1305.

Di quest’uso medievale era edotto anche Pietro Bargellini, che cercò nella storia della città le possibili ragioni dell’impiego di una parola greca: in quella strada che collega i paraggi di Piazza Signoria con quelli di Santa Croce e che ancora oggi si chiama “Borgo dei Greci”, fin dal 1200 si era costituita una sorta di colonia di immigrati dalla Grecia, notissimi come raffinati fabbricanti di profumi e artigiani di varie imprese; questi Greci di Firenze avrebbero introdotto la parola per indicare la parte migliore del maiale, secondo Bargellini. Ma si tratta di un’ipotesi non suffragata da alcuna traccia documentale.

I linguisti, quasi tutti concordi nel ritenere “arista” un “prestito dal greco”, hanno al loro interno qualche voce dissenziente, in grado di insinuare un dubbio: esiste anche una parola latina con la stessa struttura verbografica e la sola differenza dell’accento tonico: arìsta, che si usa per indicare la spiga anche in senso figurato, e quindi potrebbe indicare l’inserzione dei muscoli della schiena o, secondo Paolo Petroni, “qualcosa che sta in alto come la schiena del maiale”[2].

Concordando con la maggioranza dei linguisti, a noi queste sembrano argomentazioni deboli, anche perché nessun Fiorentino pare abbia mai pronunciato la parola con l’accento latino.

Tornando al Trecento, l’arista è al centro della novella numero 124 del Trecentonovelle di Franco Sacchetti: un tale Noddo d’Andrea, grande mangiatore e buongustaio, è mandato dalla moglie a portare al fornaio a cuocere un tegame contenente un “busecchio pieno non so di che” (forse pancetta ripiena o trippa o budella), ma quando torna per ritirare il suo tegame con la pietanza cotta, per errore gli viene consegnato un tegame diverso contenente “uno lombo e arista al forno”; Noddo si accorge dell’errore, ma si guarda bene dal dichiararlo e torna a casa a gustarsi l’appetitosa arista.

In conclusione, anche se non è possibile la certezza documentale, a noi sembra plausibile l’ipotesi di Bargellini, ossia che la parola venga dai Greci di Firenze.

Veniamo ora al vinsanto. In questo caso non si hanno attestazioni certe e autorevoli dell’uso della parola in epoca precedente come nel caso dell’arista, dunque il racconto leggendario riferito all’epoca del Concilio del 1439 assume rilievo maggiore. Ne conosciamo due versioni principali; cominciamo da quella riportata da Foresto Niccolai.

“A Firenze i teologi discutono sullo Spirito Santo, i letterati su Omero e Virgilio, i filosofi nella villa medicea di Careggi, su Platone e Aristotele, mentre Cosimo pensa agli sbocchi dell’economia orientale sul Mediterraneo. La sera invita i congressisti alla sua mensa ricca di vasellame prezioso e di cibi prelibati. Sa che gli orientali annaffiano le carni con un vino bianco e ben graduato, quello dell’isola di Xantos. Procura che anche il nostro abbia lo stesso colore, sia genuino e servito pretto. I convitati lo credono proprio «Di Xantos! Di Xantos!» come esclamano al primo sorso. Da allora anche a Firenze si prese a chiamare – italianizzandolo – «vin santo» quel liquore ambrato, liquoroso o secco, stagionato almeno per quattro anni in calibrati caratelli di rovere”[3].

L’altra versione, sempre ambientata durante il Concilio, identifica il soggetto dell’esclamazione: “Un giorno fu fatto assaggiare del vino dolce o vin pretto, come si diceva allora, al cardinale bizantino Basilio Bessarione, questi, appena lo ebbe bevuto, pare abbia esclamato: «Ma questo è Xantos», alludendo a un vino passito simile, prodotto nell’isola greca di Santorini. Chi lo ascoltava pensò che volesse dire che quel vino era così buono da giudicarlo santo e così, da quel giorno, tale nome è rimasto”[4].

Nel secolo precedente, un caso documentato di vino cui il popolo aveva attribuito l’epiteto di “santo” viene dalla città di Siena: un frate francescano durante la peste del 1348 puliva con un vino bianco le lesioni cutanee, che spesso sembravano guarire. Ma non si trattava di vin pretto, men che meno passito; dunque, questo caso, anche se spesso citato, non può essere assunto come antecedente per la denominazione perché, di fatto, è del tutto estraneo al nostro vinsanto, che è un passito ottenuto in genere da vitigni Trebbiano e Malvasia con una speciale lavorazione, che determina tutti i particolari caratteri distintivi e una gradazione alcoolica che può raggiungere e talora superare i 19°.

Concludendo, se il vino liquoroso passito di Toscana era realmente chiamato vin santo prima del Concilio, perché escludere che, prima di Bessarione o di altri rappresentanti della Chiesa greca, l’idea che il gusto di quel vino fosse simile a quello del passito di sultanina dell’isola di Xantos possa essere venuto in mente a qualche Greco di Firenze?

 

[continua]

 

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BM&L-05 aprile 2025

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[1] Foresto Niccolai, Bricciche Fiorentine (voll. I-VI), vol. I, p. 222, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[2] Paolo Petroni, Il libro della vera cucina fiorentina, p. 181, Giunti, Firenze 2009.

[3] Foresto Niccolai, Bricciche Fiorentine (voll. I-VI), vol. I, p. 221, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[4] Paolo Petroni, op. cit., p. 19. Di passaggio, qui notiamo che l’idea popolare riportata da Petroni, ossia che si chiamasse vinsanto perché era il vino preferito dai sacerdoti per la celebrazione della Santa Messa, è assolutamente da scartare perché i liquori e i vini liquorosi non erano ammessi dalla Chiesa per la consacrazione come Sangue di Cristo.